Stefano Nanni

Alcune considerazioni generali

Il diffondersi imperioso dei sistemi di Performance Management da trent’anni a questa parte nel mondo delle nostre organizzazioni ha progressivamente “pervaso” anche ambiti apparentemente lontani dalla logica che sottende tali sistemi, che, come noto, punta al tentativo di collegare i comportamenti del management ai risultati di business. Stiamo parlando del mondo “no profit”, ma possiamo allargare la riflessione anche ad altre forme (B Corp, Impresa Benefit, ecc.) o proprio a settori (sanità, servizi sociali, ecc.) in cui la “mission” aziendale non può spiegarsi solo o in totale prevalenza col perseguimento di risultati economici.

E’ vero che tra il “cosa”, cioè appunto gli obiettivi che sono attribuiti ai singoli, e il “come” tali obiettivi sono poi effettivamente perseguiti (comportamenti, competenze, sempre più anche valori guida che li ispirano) oggi si esalti maggiormente questa ultima dimensione, con l’idea di puntare più allo sviluppo delle persone che al “riconoscimento del merito”. Questo “slittamento di attenzione manageriale” parrebbe di per sé favorevole ai contesti sopra identificati, nei quali la centralità delle Persone e di conseguenza la loro crescita dovrebbero, per coerenza, essere più evidenti. Ma ciò non appare sufficiente a legittimare completamente un utilizzo efficace del PM anche in questo tipo di Organizzazioni.

Due sono le critiche più rilevanti:

  • Il fatto che nel “no profit” non si punta all’utile non significa che non vi siano obiettivi cruciali da perseguire, quindi dei “cosa” da identificare e raggiungere;
  • Quanto ai “come”, la sola rappresentazione delle cosiddette “competenze comportamentali” (o “trasversali” o “manageriali”), non rappresenta certamente l’insieme di competenze distintive, comportamenti chiave e valori che rappresentano la capacità di generare valore per i propri interlocutori chiave.

Che fare dunque? In alcune recenti esperienze professionali abbiamo trovato utile un adattamento della metodologia “Strategy Map”, presentata da Kaplan e Norton negli anni ’90 come “completamento” dell’approccio già a quel tempo ampiamente diffuso e da loro introdotto: la Balanced Scorecard.

Rimandando gli interessati direttamente alla lettura del testo fondativo (1), gli step che abbiamo suggerito ai nostri interlocutori sono i seguenti:

  • Rappresentare la Mappa Strategica, da intendersi qui come il modello di creazione del valore proprio della no profit attraverso 3-4 dimensioni generali di generazione di valore e, all’interno di queste, specifici obiettivi/priorità chiave (complessivamente, non più di 12-15). La costruzione di questo schema impegna in genere il livello apicale e lo “obbliga” ad un non facile ma utilissimo lavoro di rappresentazione condivisa del modello di generazione di valore che l’azienda no profit intende agire. Ciò è come vedremo il presupposto necessario per identificare con più chiarezza ed efficacia i “cosa” e i “come”.
  • Definire la “matrice priorità/iniziative”, che si ottiene associando ad ogni obiettivo/priorità le azioni (progetti, iniziative, ecc.) già decise o da avviare per realizzare tali obiettivi. Anche questa riflessione non è immediata e richiede la condivisione di criteri metodologici precisi, che aiutino a separare gli obiettivi dalle azioni che li perseguono, e queste ultime dalle generiche intenzioni (“lavorare sul clima aziendale…”) dalle effettive progettualità (“attivare una survey semestrale per rilevare il clima aziendale”).

Vediamo rapidamente più in profondità questi due passaggi.

Il modello di creazione del valore – la mappa strategica

Nella metodologia originaria come noto erano proposte quattro dimensioni o prospettive, collegate fra loro da un principio di causa-effetto:

  • prospettiva “economico finanziaria”
  • prospettiva “cliente”
  • prospettiva “organizzazione”
  • prospettiva “persone”

Per i mondi no profit paiono più coerenti 3 dimensioni. Una prima di queste è necessariamente quella che pone al centro la finalità specifica che l’organizzazione persegue (ad esempio, per una organizzazione sanitaria sarebbe “la dimensione Paziente”, per un ente di sostegno sociale “il supporto filantropico”, ecc.). Attorno a questo focus si configurano le altre due dimensioni, che sono due “viste”: una più esterna, che rappresenta la “dimensione Istituzionale” (con la quale si identifica il sistema di interlocutori di riferimento per la struttura, che ne garantiscono reputazione, supporti chiave, accreditamenti, ecc.); e una più interna, la dimensione “organizzazione e persone”, nella quale trovano spazio i processi organizzativi e di gestione risorse umane che consentono di sostenere l’attività dell’ente.

In alcune circostanze può essere utile “spacchettare” una di queste dimensioni ove si volesse evidenziare importanti specificità legate proprie dell’ente in questione. In ogni caso, il compito delle diverse dimensioni è quello di rappresentare priorità/obiettivi omogenei fra loro per finalità, talvolta misurabilità e quindi tipologie di “cosa”; ma anche approcci, culture e competenze distintive che possono rappresentare un “come” si genera Valore molto più chiaro e allineato.

Identificate le 3-4 dimensioni come sopra detto,  il secondo step consiste nella identificazione all’interno delle dimensioni delle priorità/obiettivi chiave che si ritengono fondamentali per realizzare la mission e la strategia aziendale. La metodologia strategy map prevede la “classica” formulazione “verbo+oggetto+qualifica”: “assicurare una tempestiva presa in carico del paziente”, “raggiungere gli interlocutori prioritari per l’azione sociale”, “rafforzare il network col mondo accademico” sono alcuni esempi. Sempre nel suggerimento metodologico di base, si dovrebbero così identificare 12-15 priorità/obiettivi che diventerebbero il “cosa” su cui chiedere innanzitutto al Vertice aziendale di impegnarsi e quindi esporsi alla valutazione di Performance Management.

Chi pensasse a questo come un esercizio facile o astratto si ricrederà rapidamente non appena si metterà alla prova. Emergerà come inizialmente le priorità siano ben più di quelle su cui ci si deve focalizzare, la loro definizione troverà diverse definizioni o interpretazioni fonte di possibili disallineamenti, alcuni aspetti chiave rischieranno di sfuggire, altri non avranno subito una rappresentazione efficace per poterli comunicare all’esterno e all’interno…un lavoro che alla fine, però, diventa il riferimento chiave su cui il management costruisce il proprio “patto d’azione” condiviso. E, dal punto di vista del Performance Management, si eviterà che il target setting sia percepito come un “esercizio HR” alla caccia di “obiettivi misurabili” che però non si sa se sono quelli che realmente ci interesserà perseguire per l’anno di gestione.

La matrice priorità-iniziative

Anche questa attività, come si è detto, richiede attenzione e un serio -in genere proficuo– lavoro di alignment tra ciò che davvero occorre fare e ciò che rischia o è giusto resti sul piano delle intenzioni. Le iniziative richiedono tempo e risorse economiche, occorre scegliere e essere certi che quanto si programma sia realmente utile a conseguire le priorità della Mappa; ma anche, nella direzione opposta, avere contezza che ci sia il numero e la qualità sufficiente di iniziative a sostegno delle priorità stesse.

Questo lavoro spesso infatti porta a “scoprire”, quasi maieuticamente, priorità “dimenticate” ma che proprio i progetti in corso rivelano essere invece importanti. Non è un processo di pura sequenza, ma piuttosto un meccanismo di ricerca di coerenze che porta ad aggiustamenti successivi.

L’esperienza insegna che attraverso un ciclo di 3-5 incontri al livello manageriale opportuno questo lavoro conduce ad una buona stratificazione di progetti e azioni concrete ben correlate al sistema di priorità della Mappa, e produce un non secondario miglioramento dei livelli di allineamento su ciò che Kaplan e Norton ritenevano essere una delle condizioni fondanti di ciascuna Organizzazione: descrivere bene la strategia aziendale.

L’attuazione del target setting

Una volta costruiti questi strumenti, ci sono le condizioni per identificare il target setting attorno al modello di rappresentazione della generazione di valore così definito, sia pure con adattamenti che vanno cercati nelle diverse specificità.

Ad esempio:

  • Le dimensioni della mappa possono identificare dei team solidali sulle relative priorità/obiettivi, che quindi divengono il loro target specifico;
  • Le priorità/obiettivi possono essere associate a KPI (come nella metodologia originaria Balanced Scorecard) oppure direttamente collegati alle iniziative della matrice che divengono così il target per gli assegnatari. Questo richiede ovviamente un passaggio organizzativo (che necessariamente si deve personalizzare sulle diverse realtà) che consenta di associare le responsabilità organizzative a priorità e iniziative.
  • Questa associazione può produrre un set di priorità e/o iniziative che può essere poi a sua volta calato sui collaboratori (cascading) o divenire la “mappa personale” all’interno della quale identificare il proprio target setting senza escludere le altre azioni da portare avanti (con regole interne che consentono di “pesare” opportunamente questi due diversi livelli).
  • Ancora, la Mappa e le sue priorità possono essere lette anche come sistema di competenze distintive che la no profit deve possedere per generare il valore della propria mission. E quindi diventare oggetto di valutazione che si aggiunge alla rappresentazione “classica” fra competenze tecniche e competenze manageriali/trasversali.
  • Infine, la separazione fra l’insieme dei “cosa” identificati dalla Mappa non deve far dimenticare Valori e Comportamenti chiave, che ne costituiscono l’ideale “cornice” imprescindibile e sempre più necessaria a completare il sistema di valori proprio di un PM realmente “incisivo”.

Questi outcome rendono tutto il processo rappresentato di grande utilità, che come credo si evinca va oltre la pura definizione del sistema di PM per traguardare più in generale la capacità dell’Organizzazione di focalizzarsi e articolarsi in modo coerente su ciò che più conta per il proprio successo. Che poi, tornando alle premesse inziali, è il compito che si vorrebbe venisse svolto dal PM, ma che come noto spesso si atrofizza in un esercizio meccanico e rituale. Il mondo no profit e questa metodologia quindi possono essere un riferimento importante anche per le aziende profit che vogliono uscire da questo impasse e migliorare l’efficacia dei loro sistemi di Performance Management.

Note

    1. Robert Kaplan, David Norton: Strategy Maps, converting intangible assets into tangible outcomes, Harvard Business School Publishing, 2004.
Occhio grigio-rosso

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